Tre umarell… – 12° Riflessioni notturne del ballerino di liscio

Il ballerino stava quieto nel letto accanto al camminatore che dormiva tossicchiando catarri e si lasciava andare ai ricordi senza briglie.

Qualche tempo prima aveva ritrovato un quaderno della quinta elementare, anno 1959, una scrittura minuta  e precisa, un lessico adulto e ormai desueto pieno di passati remoti e di esatti congiuntivi, era stato il suo stile fino da piccino.

C’era il racconto di due amici che trascorrevano un pomeriggio in Piazza d’armi, all’epoca l’unico giardino pubblico della città; dieci anni e già aveva un amico più caro fra tutti i compagni di scuola, una persona con cui condividere le avventure.

“Ieri l’altro siamo andati insieme al mio compagno  in Piazza d’Armi, appena arrivati salimmo su una automobilina ad elettricità. Io guidavo e F***** stava accanto a me con una tremarella che non vi dico. Finalmente le automobili partirono e incominciammo ad urtarci con altri veicoli che correvano sulla medesima pista.

A un certo punto schivammo un attacco e ci ritrovammo nel bel mezzo della mischia. Mentre io tentavo di portarci fuori dalla baruffa le altre auto ci venivano contro. E via, schivate ! Colpi ! Mischie ! e intanto il berretto mi calava sugli occhi. Ad un tratto F***** cominciò a gridare” stai attento !” Schivale ! Vai veloce !” però io  continuavo a cozzare  contro le altre automobiline. Per dire la verità io non avevo mai guidato quelle macchine e perciò mi era venuta un po’ di paura e mi pareva che fossimo pulci in confronto agli altri automobilisti.

Il tempo però passò presto e giunse il segnale di stop e noi uscimmo dalla nostra macchinetta con addosso una tale tremarella che appena fummo fuori dalla macchina tirammo un sospiro di sollievo.”

Ricordò quella volta, allora erano più grandicelli, che si sfidarono per un tappino di bottiglia dell’acqua Tesorino che era molto raro per lui collezionista di tappi. “Ho un tesoro per te, ma non ti sarà facile averlo” diceva F***** che lo aveva trovato e voleva regalarlo all’amico, ma chissà perché voleva anche che non fosse così scontato per lui averlo, voleva che se lo conquistasse.

Una sfida  di resistenza, o di cocciutaggine. Non ricordava più come ebbe origine quella provocazione: F***** cercava di fargli male a un braccio, gli dava i pizzicotti, gli storceva il polso,  affondava le unghie nella carne per farlo gridare, per fargli chiedere di smettere e lui resisteva per dimostrare di essere più forte, e così andò avanti per un bel po’ di tempo e di dolore e di sguardi ferrei. Poi l’amico cedette e lui ebbe  finalmente il suo tappino della Tesorino e soprattutto dimostrò a se stesso che poteva resistere. Ma non si sentiva vincitore, non c’era uno più forte e un più debole fra loro, le prove di supremazia ogni volta fallivano e si rovesciavano,  erano soci alla pari in qualunque cosa e quando se ne rendevano conto erano sicuri che avrebbero potuto sfidare il mondo insieme.

Ricordò i pomeriggi di domenica nella stanza della zia Piera, al secondo piano del palazzo dove abitava F*****. Le feste da ballo da sedicenni con le imposte  serrate e la luce che a un certo punto, dopo i primi timidi balli, veniva spenta e le ragazze emettevano gridolini di pudore e qualcuna protestava perché al buio era più facile per tutti superare la timidezza. Le compagne di allora: Luigia, la prima ragazzina, Tiziana l’amica di tutti, Rossella che disse di no al ballerino, la triste Mary, Silvia, i primi fllarini, si chiamavano così allora. Stranamente non ricordava i nomi dei ragazzi, solo che c’erano lui e F***** e forse è lì che accaddero i primi baci o probabilmente neppure quelli sapeva dare. Erano pomeriggi belli con il giradischi e le bottiglie di spuma e F***** che era il protagonista di quelle giornate: lui organizzava, lui conquistava e lui aveva il coraggio con le femmine che il ballerino non aveva. Lo ammirava.

Anni più tardi si erano messi a giocare a poker trascinati da compagni  avventurosi e senza scrupoli ed avevano perso soldi che non possedevano  fin quando non decisero di mettersi in società: giocavano a mezzo stillando le carte a turno e rischiando  i soldi comuni e  da allora vinsero e rivinsero e pagarono i loro debiti e si fecero a loro volta creditori  di altri disperati compagni che continuavano a giocare da soli. In coppia funzionavano che era una meraviglia.

Poi presero in affitto un appartamentino a Firenze in Piazza Gavinana per portarci le ragazze e a tempo perso studiare. Non fecero né l’una cosa né l’altra e dopo pochi mesi mollarono tutto e l’amico pensò che era meglio se studiava con altri.

Anche loro vissero una specie di sessantotto, infatuati dal movimento studentesco del quale cercavano di estrapolare qualche idea marxista e qualche compagna disponibile perché si era sparsa la voce effimera che le compagne ci stavano. Scesero in piazza Duomo per manifestare contro il comizio  del neofascista Birindelli nel corso del quale avvennero tafferugli e conseguenti  cariche della polizia. Naturalmente loro due erano fianco a fianco a guardare torvi i celerini servi-del-padrone, ma appena si trovarono di fronte a una carica di  questurini scatenati col manganello ripararono con una fuga strategica in un portone, era il portone di casa di F***** per l’esattezza, che era il più vicino, e lo chiusero al volo dimenticandosi fuori la vecchia professoressa combattente partigiana che si prese una sonora manganellata nella cervice al posto loro. Non furono propriamente degli eroi in quella occasione, ma soltanto la storia li potrà giudicare ! Comunque la professoressa dovette andare all’ospedale e fortunatamente non si accorse che i suoi discepoli l’avevano chiusa fuori, o forse fece finta perché fra quelli che avevano fatto il brutto gesto c’era anche il figlio.

Durante le Olimpiadi del 1972 all’improvviso uno dei due disse “Sarebbe bello andarle a vedere da vicino” e l’altro rispose semplicemente  “Andiamo!” e partirono sulla 500 blu decapottabile di F***** con talmente pochi quattrini in tasca che arrivati a Monaco di Baviera non avevano i soldi per entrare a vedere le gare. Stettero un paio di giorni a bighellonare  e mangiare wurstel  da sciagurati sulla collinetta del villaggio olimpico e tornarono a casa con le magliette e le spille ricordo, fortunatamente prima del massacro di Settembre Nero.

Andarono insieme a vedere partite di calcio a Firenze delle quali a loro non importava nulla perché le stupidaggini era bello farle insieme. Ad uno veniva un’idea e l’altro seguiva, come  la squadra di hockey che loro due avevano inventato dal nulla perché l’amico era quello disposto a condividere qualunque sciocca avventura gli si proponesse. Si fidavano l’uno dell’altro, anche  se lui, il ballerino, a un certo punto della storia era sempre stato un po’ inaffidabile e poteva abbandonare una ragazza, un appuntamento o una squadra di hockey per noia o per dimostrare di esser autosufficiente, e che non aveva bisogno di nessuno. Giocava a fare l’intellettuale impegnato che quando le cose diventano troppo popolari si allontana sdegnato perdendo così le occasioni migliori della giovinezza che l’altro godeva appieno. Un narcisista mascherato da timido, “Mi si noterà di più se vengo e sto in disparte o se non  vengo” come anni dopo spiegherà bene  Nanni Moretti. L’amico conosceva  bene questo trucco e non lo approvava, soprattutto non ci cascava. Lui era concreto, abituato da sempre a puntare dritto alla sostanza delle cose e sapeva di aver ragione da vendere. Fino a quando le strade si erano divise perché F***** decise di crescere:  il fidanzamento e poi il matrimonio quando l’altro ancora pensava ai giochi da sfigati, un buon  lavoro, la carriera gratificante, i figli e il segnale che tutto stava mutando in un rapporto diverso fatto di silenzio e lontananza. Un distacco che fece bene a tutti e due per far loro prendere la strada della maturità, senza vincoli e senza più sfide fra di loro.

Il giorno delle nozze il ballerino si fece prestare un improbabile vestito color panna e accompagnò l’amico fino alle soglie dell’altare dove idealmente lo consegnò  alla sposa e il suo ruolo cambiò.

E ripensò alla giornata di cammino appena terminata nella quale aveva visto l’amico d’infanzia, ormai indebolito come lui stesso, soffrire, piegato sulle gambe, quasi implorando di fermarsi un poco, di dare una ragione a quella testardaggine, e si chiese con quale diritto avesse così spremuto le energie degli altri, avesse perseguito il proprio interesse o la propria bizza come sempre senza curarsi del volere altrui. “O si fa così o me ne vado”. Ancora una sfida di volontà fra loro.  Ma non valeva questa violenza, non era giusta e se in tre erano partiti  in tre avrebbero dovuto camminare  E pensò che  sarebbe stato più lieve il cammino dell’amico se gli fosse stato al fianco anziché pavoneggiarsi con la sciocca imitazione del sergente Hartman. Pensò che in fondo non erano cambiati da allora e sempre si sfidavano, giocando a chi resiste di più con la stessa  supponenza di quando da bambini dovevano dimostrare qualcosa. Si chiese se fosse stato giusto di non cambiare mai o se piuttosto non ci si dovesse piegare al trascorrere del tempo e diventare cedevoli almeno per una volta, accettare di essere i più deboli per far felice l’altro. Fu doloroso riconoscere che aveva approfittato della stanchezza dell’amico, che gli altri si arrangino e protestino pure tanto poi passerà.

Ma il ballerino sapeva come consolarsi e come dormire tranquillo, era un esercizio imparato da piccolo e tenacemente praticato nel corso degli anni e nei confronti di tutti, colleghi, famiglia, amici, figli: tanto prima o poi passerà, e l’amico, l’amico di sempre, come sempre perdonerà e capirà perché così è sempre stato e per sempre continuerà anche quando dentro di noi sappiamo che è sbagliato, ma costa troppo ammetterlo.

E pensò a tutte quelle volte che aveva proposto qualche impresa eroica o qualche sciocchezza e l’amico, sempre lui, quello che adesso era un vecchio forestale, rispondeva con entusiasmo “Io ci sto !” . E anche quella volta, un anno prima, quando aveva buttato la proposta “Andiamo a Santiago” l’altro aveva risposto senza esitazione “Io vengo !” e  averlo accanto era rassicurante perché era forte, deciso, organizzato e determinato e il suo coinvolgimento era totale, e lui era uno che non tradiva e senza quella frase decisa “Io vengo!” adesso non sarebbero stati lì, in quella stanza di un brutto albergo di Arcade che rappresentava l’ultima avventura, la più bella.

E infine nel suo cuore profondamente lo ringraziò per non aver mai pronunciato le parole “Io mi fermo.” né sulla macchinina elettrica in quel 1959 in Piazza d’Armi  e nemmeno sul cammino di Santiago in una giornata di prostrazione fisica e non essersi tirato indietro neppure quel giorno.

Poi si addormentò.

continua …

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