Il primo lato del bagno in mare va dalla sassosa spiaggia dell’insenatura fino al limite destro della scogliera: qualche centinaio di bracciate per aggredire il freddo dell’acqua con i muscoli che lentamente si distendono e il calore del corpo che si assuefà alla temperatura del mare. Ha inizio così il mio quieto viaggio.
Si va verso i banchi di sabbia che danno al fondale un colore verde smeraldo in contrasto con il bruno azzurrato delle rocce. Le brevi distese di sabbia bianca si adagiano a una profondità di quattro metri e fanno da guida per proseguire: mantenendomi sul loro lato destro vado nella direzione corretta .
Durante questa parte del bagno mi piace contare, da uno a cento, respiro dopo respiro, e poi daccapo da uno a cento, e poi ancora. Concentrato sulla inevitabilità dei numeri ogni altro pensiero si affievolisce fino a scomparire, arrivato a trecento sarò in prossimità degli scogli affioranti della punta del promontorio, fuori dallo sguardo di coloro che stanno a riva.
Mi fermo e sollevo la testa: vedo solo la superficie ondulata dell’acqua e gli scogli, mi sento solo e libero.
Non mi piacciono quelli che si mettono seduti sulla riva e lanciano con noncuranza sassi in mare uno dopo l’altro, come un sopruso: un sasso sta in acqua o all’asciutto da centinaia di anni secondo un lento disegno, un lembo di corrente o la risacca dell’inverno hanno agito per lui magari spostandolo ogni volta di qualche centimetro, poi arriva un sconosciuto e stabilisce proditoriamente di alterare l’equilibrio naturale.
Non mi piacciono neppure quegli apprendisti castori che costruiscono piccole dighe di sassi ostruendo il flusso spontaneo della corrente, non mi piace chi parla a voce alta, chi sente la musica in spiaggia, non mi piacciono i bambini sulla spiaggia e chi fa cagnara, insomma quasi nessuno mi piace che venga a disturbare la perfetta quiete che ho trovato in questo luogo.
Perciò sto bene in acqua.
Occorrono sette/otto minuti per fare questo tratto di mare, secondo il movimento delle onde e l’energia di quel giorno fino a doppiare la punta degli scogli bassi. Sulla destra appena passato lo sperone di roccia c’è una minuscola rientranza di sabbia incapsulata fra gli scogli, è il punto dove, se mi va, posso poggiare i piedi a terra in un ultimo fugace contatto con la terraferma.
In solitudine mi avvio alla meta successiva: il piccolo promontorio che protegge l’imbarcadero turistico, i pontili galleggianti che vengono montati in estate su un lato esposto del golfo, un ormeggio privato che deturpa la magnifica insenatura del paese, e che già non basta, non basterà mai, vorrebbero un porto turistico anche qui per farne un ricettacolo di motoscafi e gommoni più di quanto già sia adesso.
Questo pensiero mi segue mentre percorro la distanza bordeggiando la riva per timore dei gommoni a noleggio che sfrecciano trenta metri più al largo; sulla destra si affacciano quattro belle case tra i pini, ma solo due hanno l’accesso al mare con i gradini intagliati nella roccia, non ho mai visto nessuno fare il bagno in questo specchio d’acqua.
In questo tratto osservo il fondale attratto dal movimento imprevedibile dei pesci, ma è la parte che meno amo, è faticosa, bracciate che servono solamente ad allungare il percorso; ci vogliono dieci minuti per arrivare a alla scogliera che nasconde le barche ormeggiate, però quando sono qui alzo lo sguardo e ciò che vedo mi piace: sono al punto più lontano del mio viaggio, da qui potrei tornare a casa a piedi risalendo il sentiero.
E invece si riparte per ritornare indietro nello stesso percorso fino a doppiare nuovamente la punta del primo promontorio quello che dà sulla nostra spiaggia, la cala triste come una volta l’hanno chiamata, che di triste non ha niente, io la chiamerei cala della solitudine o della riflessione o del silenzio o forse dei cani giocosi e remissivi che frequentano questo angolo di costa rocciosa, ma certamente non triste
Un tizio veniva qui tutti giorni con la moglie: lei sedeva al sole, lui camminava lentamente fra i sassi assorto, soppesando l’area con un lieve socchiudere degli occhi. Poi, con metodo e pazienza certosina, sovrapponeva pinnacoli di pietre una sull’altra poggiate sugli scogli, creando dal nulla magnifiche sculture, incastri e sostegni naturali, pietra con pietra, dalle forme slanciate come un vortice verticale, stalagmiti poggiate in un equilibrio prodigioso, minareti disseminati in maniera scenografica.
La moglie lo guardava compiaciuta e un po’ rassegnata alla geniale follia del marito, ogni tanto indicando con la mano e con complicità una pietra utile alla costruzione.
Il rito si ripeteva ogni giorno, costruiva questi menhir dalle fondamenta incerte miracolosamente eretti sul niente, stabili nella loro effimera precarietà, come un segnale per i bagnanti di passaggio.
Il giorno dopo li ritrovavamo disfatti, … hop…. le torri erano misteriosamente franate.
Accadeva che, come in uno specchio concavo, un alter ego contrapposto, un signore attempato faceva il suo giro serale e abbatteva con cinismo e meticolosità ciò che l’altro aveva costruito con perizia, contrapponendo la gravezza della distruzione alla leggerezza della edificazione, la materia allo spirito, come chi non sapendo costruire vuol manifestare un equivoco segnale di vita distruggendo.
Ebbene, ineffabile, l’architetto dell’equilibrio tornava e, superato lo stupore del disastro, ricominciava daccapo, lentamente riparando, aggiungendo nuove pietre ad erigere nuove torri sghembe, con la solita pazienza e la solita mira infallibile degli incastri.
E di nuovo al mattino successivo le sculture erano a terra, e così via, un giorno dopo l’altro per una intera estate.
Non so cosa ci insegna tutto questo. Invidia, incapacità ad accettare ciò che non si comprende, lotta della brutalità contro la fantasia, dell’estro contro il conformismo o più semplicemente un dispetto fra anziani bagnanti, una lite nata forse lontano dalla spiaggia per banali questioni di condominio o di parcheggio.
I due signori non si sono mai incontrati, ma il maestro dei pinnacoli alla fine ha rinunciato, ha vinto il distruttore come sovente accade, e tutti noi ospiti occasionali della spiaggia ci abbiamo rimesso un po’.
Si torna quindi a doppiare la punta e qui inizia il piacere più profondo: all’orizzonte vedo l’isoletta dei Garofani, poco più di uno scoglio che fa idealmente da limite di sinistra alla cala. Quella è la mia meta. Il ritmo ora acquista determinazione e passione, il respiro si fa più rarefatto, senza rumore, sento il fresco dell’acqua sulla pelle, il silenzio interrotto dallo swash delle bracciate vedendo sprofondare il fondale dai tre ai quattro metri giù, giù, fino a perdersi misterioso in un baratro dove talvolta ho scorto una razza muoversi mollemente ondeggiando la coda sottile in un rassicurante saluto.
Cosa posso fare se non pregare adesso ? Riemergono vecchie preghiere a domandare pietà, aiuto, consiglio, oppure ne invento di nuove senza regole, banali, per mantenere propositi, o folli desideri da sognare, come un mantra, in piena intimità con la mia anima, il mio corpo e la natura e niente altro. E’ il mio pellegrinaggio interiore.
E intanto vado al massimo delle mie forze, senza guardare indietro, mai ci si volta nel percorrer lunghe distanze, spingo, onda o non onda, perché amo questo momento mentre si avvicina l’isola dei garofani, mentre lo sciacquio delle onde ritmicamente mi accompagna e finalmente sto volando !
Nuotare è la cosa che più si avvicina al volo, aria e mare fusi in una inebriante sensazione di levità, sotto di me ci sono valli e campi e paesi e non alghe, sabbia, rocce. Mi sento leggero, pulito, in sintonia con il luogo, in uno stato di benessere.
E’ il lato più prolungato del viaggio, ma dura sempre troppo poco il tratto che mi porta a toccar la punta estrema dei Garofani, quando sarò lì mi volterò a guardare con appagamento la linea d’acqua di così breve e di così intenso viaggio.
Un respiro e si torna indietro per la lunghezza della baia nuovamente a toccare per la terza volta il promontorio. Senza fretta adesso, sollevo un poco di più la testa verso sinistra perché da questo lato ad ogni bracciata sul pelo dell’acqua si staglia il profilo di Tavolara e piegando la testa sulla destra si scorge il sole che si avvia al tramonto dietro le basse colline mentre ancora ascolto il suono dell’acqua falciata dal corpo ed ancora sento il fresco sulla pelle e tutti i sensi sono appagati e questo è un nuovo attimo di gioia, di presenza, sono vivo come mai nel resto del giorno.
E via così fino alla punta del promontorio, dieci minuti è il tempo per arrivare, un ultimo sguardo prima di cercare con lo sguardo verso la spiaggia il basso ginepro sotto il quale trovo riparo nelle ore più calde del giorno, e finalmente rientrare con lentezza esasperata dalla stanchezza e dal compiacimento, giocando con le onde in un abbandono cosciente, indugiando ancora alla ricerca di un particolare non ancora scoperto nascosto fra le rocce e la posidonia, lasciandomi trasportare languidamente dalla corrente, piano piano, fino a riva.
Certi vengono qui a caccia di polpi, le rare volte che ne ho scorto uno, piccolo, attorcigliato su se stesso come un gatto addormentato ho guardato con meraviglia e mai avrei potuto dargli la caccia, ho dentro di me una immagine atavica di mostri sottomarini, di calamari giganti che con un tentacolo mi afferrano un piede e mi trascinano sul fondo del mare imprigionandomi nelle loro caverne azzurre, reminiscenza di qualche film dell’orrore subacqueo.
Alla fine rientro a riva: mi sollevo dall’acqua scivolando sui sassi e mi giro indietro a guardare ciò che, immutabile, è lì, sempre, come una promessa di un nuovo appuntamento per l’indomani.
Questo è il mio modo di pregare col corpo e con l’anima. Vengo qui ogni giorno nel silenzio totale e in solitudine compio il mio percorso e non sono mai deluso, né triste o sconfortato, sono pieno di questa emozione di cui sono geloso e che oggi, qui, per la prima volta ho confidato.
Questa è la ragione per la quale non mi spiacerebbe che le mie ceneri venissero sparse in questo tratto di mare, perché qui vivo momenti bellissimi della mia vita, ammesso che un giorno lontano abbia delle ceneri tutte mie !